“Gli operatori di comunità non si limitano a sostenere i gruppi comunitari. Si può fare lavoro di comunità, in effetti, a partire da numerosi approcci diversi. Vale la pena di provare a classificarli, con una nota cautelativa: è bene difficile che, nella pratica del lavoro sul campo, si possa fare uso dell’uno o dell’altro di questi modelli ‘allo stato puro’. Si tratta di tipi ideali che ci aiutano a comprendere meglio il lavoro di comunità. Eccone alcuni:
– L’approccio dello sviluppo di comunità ovvero il lavorare con la comunità, e quello della pianificazione di servizi, ovvero lavorare con la comunità;
– la prospettiva dell’auto aiuto (la comunità che si aiuta da sè) contrapposta a quella delle azioni di pressione;
– il ruolo assunto dall’operatore: facilitatore oppure organizzatore;
– il lavoro di comunità in senso stretto o come stile;
– il lavoro di comunità a titolo gratuito, a cui si contrappone quello retribuito”.
[da “Il lavoro sociale di comunità” di Alan Twelvetrees – Erickson Ed. 2016]
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Si parla sempre più spesso di «lavoro di comunità». Sotto due visuali. Da una parte, si intende la capacità delle comunità locali di realizzare autonomamente forti iniziative per la soluzione di propri problemi o innestare processi di cambiamento importanti. Dall’altra, si indica la capacità di singoli operatori di promuovere progetti di rigenerazione comunitaria. In questa seconda via, il lavoro di comunità è un preciso approccio professionale, ad alto contenuto relazionale. Ma attenzione, l’elemento irrinunciabile per un autentico lavoro di comunità è la partecipazione. Il coinvolgimento reale delle persone, senza imposizioni da sopra, ma lasciando spazio a un processo aperto e paritario. Non è possibile, infatti, pensare di risolvere i problemi collettivi di una comunità intera se non facendo leva sulle capacità della stessa comunità di fronteggiare i propri problemi”.
“Abbi sempre il coraggio di prenderti in braccio e portarti in salvo” – Serena Di Caprio
Mi sono sempre piaciuti gli aforismi, le citazioni, perché sono brevi, sintetiche, essenziali. Ma soprattutto perché mi fanno pensare! È come ricevere un pizzicotto che mi fa trasalire o accendere la luce in una stanza buia. Quando ho letto questa citazione, tratta credo da un libro dell’autrice, ho ripensato alla nascita, ormai cinque anni fa, del Punto d’Incontro San Giorgio.
Il nostro intento era, ed è tutt’ora, cercare di aiutare le persone attraverso l’Ascolto autentico. Lasciando per un attimo in disparte il problema che ci viene portato e mettendo al centro la persona, senza giudicare, senza dare opinioni o consigli. Aiutando invece ad intravvedere altre strade, altri sentieri da percorrere per poter affrontare il problema. Farle scoprire le potenzialità che la stessa già possiede, ma che non riesce a vedere. A pensarci bene, come accendere la luce in una stanza buia. Sarà poi la persona stessa a trovare ciò di cui ha bisogno.
Ho sempre pensato, fin dall’inizio del mio servizio al Punto d’Incontro, che le persone che mi sarei trovata di fronte, per il semplice fatto di aver telefonato o di essere lì presenti, avrebbero dovuto avere un po’ di coraggio.
Non è sicuramente facile chiedere aiuto! Specialmente questo tipo di aiuto!
Lo urliamo senza riguardo, quando corriamo un imminente pericolo fisico, perché qualcuno ci possa sentire e ci venga a salvare o semplicemente lo chiediamo quando andiamo dal medico per un malessere palpabile, fisico. Diventa però difficile chiederlo quando è la nostra mente, la nostra anima, ad averne bisogno. Ho provato a chiedermi perché!
Forse ci frena l’orgoglio?
Vorremmo fare tutto da soli perché ci fa sentire orgogliosi di noi stessi. Ci è stato insegnato fin da piccoli a cercare di farcela da soli. È bellissimo riuscirci, ma quando si tratta del nostro benessere l’orgoglio può essere dannoso.
Forse ci blocca la vergogna?
È difficile “mettersi a nudo” davanti ad altri. Il nostro intimo pensiero, ciò che proviamo, le emozioni che sentiamo, specialmente se le riteniamo negative, è sempre stato un qualcosa di privato. Per così dire “i panni sporchi si lavano in famiglia”!
Forse abbiamo paura del giudizio degli altri?
Siamo tutti bravi a giudicare gli altri, sembra lo sport preferito del genero umano, ma siamo giustamente i primi a non voler essere giudicati. E allora, pur avendo ognuno la propria opinione, proviamo per primi a non farlo.
Forse non sappiamo o non riusciamo ad ascoltare noi stessi?
Già, qualche volta ci accorgiamo di avere un malessere, ma non riusciamo ad identificarne la causa o non la vogliamo vedere.
A volte, se ci si sente ascoltati, può bastare una semplice chiacchierata per “sentirsi meglio”. Con un po’ di coraggio possiamo essere noi gli artefici del nostro benessere!
Non aspettiamo di avere l’acqua alla gola!
Annamaria Sudiero
“La sola persona che non può essere aiutata è la persona che getta la colpa sugli altri.”
“L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito “afferrano il messaggio” rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.” (Paul Watzlawick)
La comunicazione oggi abbisogna di una grande rivisitazione da parte di tutti, sia in famiglia (tradizionale o appartenente a nuove modalità) sia nella società e in azienda.
Una importante iniziativa è stata proposta nel corrente mese, a Firenze il 4 scorso, sotto forma di simposio internazionale: “I dialoghi del cambiamento – Il simposio per celebrare i trent’anni della fondazione del Centro di Terapia Strategica e i dieci anni dalla scomparsa del Maestro Paul Watzlawick“.
E infatti c’è bisogno di riprendere il filo del Dialogo e quindi del Cambiamento, attraverso la riscoperta della Comunicazione
Non è possibile proseguire in una società che si ritiene civilizzata e avanzata secondo i canoni dell’ “io contro tutti“, del “chi non è con me è contro di me“, un po’ autodistruttiva del tipo “muoia Sansone con tutti i Filistei ” (Libro dei Giudici). Più che canoni sono manifestazioni di pancia che nascono da pulsioni che rispondono a situazioni spesso personali di impotenza, paura e sfiducia e da conseguenti ribellioni verso qualche cosa di istituzionale che non è accettato.
Esempi chiarissimi e tremendamente dimostrativi di quanto affermato si possono correntemente trovare nel mondo del web e in particolare di facebook. Sono i cosiddetti social che di social hanno solo il nome, ma che mancano dei presupposti social: relazione con gli altri, confronto, rispetto delle persone e delle idee altrui, ecc.
Basta che una persona inserisca nel ciberspazio un qualsiasi parere su qualsiasi tema, non necessariamente politico, e si scatena il “lancio del fango”, per essere delicati nella definizione. Ma è così. E’ il cosiddetto “simulmondo” che condiziona pesantemente il reale.
C’è bisogno in generale di comunicazione non violenta, per esempio. Non è un caso che nelle scuole (non italiane) temi come questo siano tra gli insegnamenti di base.
Crediamo occorra ripartire dal Dialogo mettendo l’altro (Persona) al centro.
Cos’é il Dialogo?
La parola “dialogo” deriva dal greco ed è composta da due elementi: “dia” e “logos”. “Logos” significa parola, ragione, significato. “Dia” significa “in mezzo a”. Quindi dia-logos vuol dire che ragione o significato non sono il monopolio di una parte ma affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti o agenti. Il logos qui è un logos condiviso e dipende in maniera cruciale dalla partecipazione di diverse o molte persone.
Questo ragionamento ci fa immaginare come ai giorni nostri sia o non sia presente una comunicazione partecipata. H.G. Gadamer può essere considerato il filosofo del dialogo per eccellenza per via della sua insistenza sul fatto che ogni incontro interpersonale dipenda da un dialogo in cui i partecipanti sono disposti a trasgredire la centralità del proprio essere nella direzione di una “fusione di orizzonti”.
Ben detto, ma oggi siamo lontanissimi da fondere gli orizzonti e quanto viviamo è sempre più un fenomeno “glocal”, che riguarda il nucleo famigliare, la coppia, il quartiere, la parrocchia, l’associazione, l’ente locale; riguarda anche la provincia, la regione, lo stato, la federazione, per noi la cosiddetta Unione Europea.
Pare siamo ad un punto di non ritorno. Vogliamo pensare invece che si possa rivisitare la comunicazione rivedendo gli stili di vita dei singoli e poi delle comunità. Occorre ripartire dal mettere la persona al centro e rilanciare il Dialogo, in una Comunicazione idonea che permetta a tutti di esprimersi e arricchirsi dal confronto rispettoso con gli altri.
Sta ai singoli, anche quando rappresentano comunità, “scegliere” di dare attenzione all’altro.
Eloquente il filmato – sull’uso odierno delle nuove tecnologie – che ci dice da un lato come si può essere sempre connessi con il mondo grazie allo smartphone e alla dipendenza dallo stesso, e dall’altro, nel contempo, come si riesca a “ignorare” la reale presenza degli altri, anche quando si tratta di persone molto importanti per noi.
L’attenzione verso l’altro, la vera attenzione, che poi si trasforma in Dialogo, è una scelta individuale che va valorizzata e ancor prima riscoperta.
Recensione e commento di Gianluigi Coltri, poeta, scrittore e studioso.
«Facciamo un gioco, maestra…» Mancava poco alla campanella e i bambini erano stanchi. «C’è un gioco molto bello, ma anche molto difficile» disse pensosa la maestra. «In realtà è un esercizio per bambini più grandi…mi pare che voi siate ancora troppo piccoli». Così diceva la maestra, guardando dubbiosa la classe.
I bambini si erano fatti attenti. «Proviamo lo stesso, maestra» dissero alcuni. «Sì, sì…» gridarono subito gli altri.
La maestra fingeva indecisione. Poi sembrò convincersi. «Va bene, proviamo. Ma non credo che ce la possiate fare…non tutti, almeno. Dovrete proprio mettercela tutta». E finalmente spiegò: «Faremo il gioco del silenzio. Ogni bambino deve stare fermo fermo, zitto zitto, senza fare il più piccolo rumore. E allora riusciremo tutti insieme ad ascoltare il silenzio. È una cosa molto difficile, vedrete, non è facile proprio per niente…ma proviamo lo stesso, se volete. Per la prima volta tentiamo di ascoltare il silenzio per un intero minuto».
(Carlo Sini, “Il gioco del silenzio”, Mimesis, 2013)
“”Dentro la collana di piccoli saggi filosofici etichettati dall’Accademia del Silenzio, è presente anche Carlo Sini, uno dei grandi pensatori del secondo Novecento italiano, docente di filosofia teoretica a Milano, autore di una cinquantina di libri. Beh, questo è forse il più piccolo, ma non è meno denso dei suoi saggi su Spinoza o Wittgenstein. L’autore parte da un gioco, che tutti, credo, prima o poi, abbiamo fatto o abbiamo fatto fare (ai figli, in auto, magari). Il gioco del silenzio, che la supplente, la maestrina propone ai bambini, che un po’ capiscono e un po’ invece restano disorientati, con la difficoltà di mantenerlo, il silenzio, prima ancora di ascoltarlo. Silenzio che è, soprattutto, esplorazione di sé, ascolto di sé, ma è anche paura (abbiniamo la morte al silenzio), vuoto, assenza, ascolto, paura, sonno… In poche decine di pagine, Sini riesce anche a infilare il silenzio di Dio (tema caro all’ebraismo, prima ancora che al cristianesimo), ma anche quello della ragione (che per Nietzsche genera mostri), quello del filosofo (come si fa con l’inesprimibile? Assenza di parola?), per finire con l’arte del silenzio (il silenzio è il “prima” e il “dopo” di ogni cosa)””.
E’ nell’Incontro con l’altro che noi possiamo specchiarci, ritrovarci e comprenderci. Riuscire a trovare il coraggio di essere fino in fondo noi stessi.
“… dice che ci sto e così ecco qua, me n’accorgo pur’io che ci sto. Mi chiedo da solo: non me ne potevo accorgere per conto mio di esserci? Pare di no. Pare che ci vuole un’altra persona che avvisa”.
(Erri De Luca, da “Montedidio”)
Creare, Creatività … Possiamo essere Creator? Cominciamo a parlare di Creatività a piccoli passi. La creatività è una capacità : non solo una dote innata ma qualcosa che va coltivato, sviluppato e fatto crescere sfruttando tutte le opportunità (e tutte le casualità) offerte da un ambiente adeguato. In termini di sviluppo della creatività, DNA e ambiente interagiscono sempre, compensando o accentuando le reciproche influenze in senso sia positivo che negativo. I dizionari dicono che la creatività è una capacità produttiva: un’attività non fine a se stessa, ma orientata al conseguimento di un obiettivo diverso dalla pura autogratificazione. Inoltre i dizionari suggeriscono che la creatività nasce dall’integrazione di pensiero logico e pensiero analogico.
Ma veniamo per oggi ad una iniziale ed interessante riflessione di una giovane Operatrice volontaria e tirocinante presso il Punto d’Incontro San Giorgio, counsellor in formazione, Beatrice Bertoli.
“Gli uomini hanno trasformato il mondo in un mattatoio in cui essi sono i macellai e i macellati. Voi, nati per librarvi in alto, per solcare gli infiniti spazi, per avvolgere l’Universo con le vostre ali, avete confinato voi stessi in comode stie di convenzioni e di credenze, e ciò ha tagliato le vostre ali, ha menomato la vostra vista ed ha pietrificato il vostro vigore. Avete sepolto la vostra perenne luce sotto troppi strati di illusione, ed ora vi lamentate delle tenebre in cui vi trovate. Non chiedete alle cose di disfarsi dei loro veli. Svelate voi stessi, ed ogni cosa sarà rivelata.” (Mikhail Naimy, Il Libro di Mirdad)
“Un termine che mi sta molto a cuore è Creare. Mi pare che oggi non si parli proprio con questo verbo, si preferisce avere. Ho questo, non so neanche se mi piace però sottolineo che ce l’ho …
Che ne dite del ‘creare’ se stessi?
Creare presuppone che prima non esista nulla; infatti, con la nostra mente di persone creative, è bello partire dal nulla per continuare a darsi nuove definizioni. Non diamoci etichette! Semplicemente creiamo quello che pensiamo di noi.
Ma … C’è chi pretende di prendersi la realtà con la forza. Mi dispiace dirlo, ma il reale va conquistato. E anche duramente.
Chi pensa che la realtà sia tra le mani così, senza proferire parola o azione, sbaglia.
Chi pensa che impadronirsi della realtà sia un atto scontato, sbaglia tutto.
La realtà va vissuta, criticata, apprezzata, decodificata. Non ti nasce tra le mani, ha il suo giardino. Non nasce con semi selvatici, è preziosa e da curare.
“E’ il più terrificante dei sentimenti rendersi conto che il medico non sa capire quello che senti, non ti vede, e che sta andando avanti di testa sua. Cominciavo a sentire di essere invisibile e forse di non esserci nemmeno.”
(Ronald Laing)
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Il titolo del paragrafo è “ascolto autentico” perché desidero far prevalere questo aggettivo all’usuale “attivo”, pure importante. Anzi partiamo da quest’ultimo.
L’ascolto empatico, ecco un’altra aggettivazione, prevede “attività”. Ciò significa non solo ascoltare le parole dell’interlocutore, ma anche leggere i segnali del corpo, il paraverbale e il non verbale. Leggere i silenzi, i suoni, i trasalimenti.
Significa interloquire con domande mirate di chiarimento, di incoraggiamento, di specificazione al fine di acquisire chiarezza rispetto allo stato d’animo dell’altro e offrirgli feedback .
L’”autenticità” dell’ascolto va oltre l’ascolto attivo, e si raggiunge allorché chi guida entra in contatto pieno con l’intimo dell’altro, riesce a essere insieme nella distanza, ciascuno da sé e per sé e allo stesso tempo insieme.
In quello spazio, il campo, tutto è fluido e spontaneo e può realizzarsi da parte dell’interlocutore il “colpo perfetto: tutto ciò che è, diventa uno” (Scena: vedere il campo, da “La leggenda di Bagger Vance”).
Ascoltare autenticamente diventa quindi non solo importante, ma decisivo per la fase iniziale di aiuto sia in termini di consultazione e quindi capire “lo stato d’animo” dell’interlocutore sia per produrre empatia ulteriore.
L’impegno empatico che parte dall’ascolto autentico presenta una valore di grande rilievo.
L’essere umano è in perenne attesa di attenzione, di un “tu” che venga ad accoglierlo e a salvarlo, a renderlo integro, capace così di affrontare le sfide della vita.
L’ascolto autentico, allora, altro non è che l’ascolto profondo e rispettoso della sofferenza e del dolore altrui.
In effetti che si tratti di una perdita di un famigliare, di un parente, oppure della perdita del lavoro, oppure di una separazione coniugale, oppure della partenza da casa dell’unico figlio, sempre dolore è. Sempre di distacco e di sofferenza parliamo.
Lo stesso vale per gli altri sentimenti anche belli come la gioia e la felicità, ma di norma non è richiesto aiuto per questi sentimenti.
Emozioni come la rabbia, la paura, l’ansia, la tristezza, possono invece essere oggetto di ascolto, un ascolto che può dare a tali fastidiose emozioni una lettura utile per chi le prova e ne patisce.
Ora nel caso del dolore, avviene che chi chiede aiuto è chiuso in se stesso, è rintanato in una gabbia di solitudine e isolamento, il cui chiavistello è dato dalla diffidenza più potente emulsionata da una paura che teme la vita e prevede nuove ferite.
Come è possibile sfondare tale muro invisibile, ma fortemente condizionante?
Con accoglienza e rispetto verso la diversità, per il vissuto, per le emozioni positive o negative che siano, per le ferite e i peccati, per il disordine.
Rispetto e accoglienza per i valori e le credenze manifestate.
Sono l’accoglienza, l’ascolto autentico e alla fine l’empatia che sfondano il muro invisibile.
(Gianni Faccin – da “Motivazione comunitaria e counselling – Un caso concreto” – 2013)
1 – Dott. Mauro Ciccarese – Direttore dell’Unità Operativa Infanzia Adolescenza Famiglia – Ulss 7 La Pedemontana
“Ciao G., complimenti per l’attività svolta e monitorata. Centri così costituiti penso siano molto importanti per chi li fa, per chi li riceve, ma soprattutto per la comunità che li attiva e li accoglie e da un senso di appartenenza. A presto, Mauro”
Ho riflettuto su questo termine, che è uno stato personale, dopo che ieri all’inizio di una riunione di lavoro alcuni colleghi si sono informati sui miei progetti e, dopo che ne ho accennato, hanno esclamato: “beato te!“. Ciò ha richiamato l’attenzione di altri che hanno concordato a voce alta su quanto già espresso da alcuni e fissandomi con vivo e piacevole interesse.
Sinceramente ho provato anche io piacere nell’immediato, e ho sorriso concordando io stesso sull’esclamazione. Salvo poi chiedermi mentalmente perché. Perché beato?
Oggi sono ritornato su questo pensiero, in una giornata che – come ogni anno – ci invita a guardarci dentro nell’oggi e a trovarvi i collegamenti con l’ieri, ci propone di identificarci nel presente trovando conferme rispetto al nostro rapporto con le nostre radici (paterne, materne, parentali, amicali, associative, …). E poi guardare avanti, quasi subito.
Mi sento sì beato. Ma non è come nei luoghi comuni, in cui essere beato s’intende stare bene, in pace, tranquillo perché non ci sono fastidi, dissidi interni, contrasti con altre persone, non aver seccature.
E com’è allora?
Ho provato a cercare nella letteratura e nei dizionari. Ecco alcune interpretazioni, tenuto conto che beatitudine deriva dal latino beatitudĭne(m), deriv. di beātus ‘beato’.
Alcune definizioni sui dizionari: “felicità intensa, perfetta e assoluta, circondato dalla mia amata famiglia, vivo in beatitudine”; “sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo; allegria, letizia, felicità: gioia grande, profonda, immensa” (gioia è termine correlato); “l’essere sereno (anche in senso figurato): la serenità del cielo, serenità di spirito, di giudizio” (serenità è altro termine correlato).
Guardando alla teologia: “Stato di perfetta felicità, specialmente quella delle anime del Paradiso, consistente, secondo la teologia cattolica, nella visione beatifica di Dio”.
E alla letteratura classica, Foscolo diceva che beatitudine è sentirsi amato, “la beatitudine di sentirsi amato addolcisce ogni dolore”.
Io considero beatitudine uno stato d’animo in tensione e ricerca per forti vocazioni, per attenzioni verso gli altri, i singoli e le comunità in cui ho avuto e avrò il dono di essere inserito o in connessione.
Di questo ringrazio coloro che sono state le mie radici e che oggi ricorderò in modo particolare. Ma poi tornerò alla scena di tutti i giorni con tutte le sfide, gli impegni, i desideri e i progetti che matureranno. Il Gesuita Giovanni Cucci (filosofo e psicologo) ha scritto una cosa che sento molto mia:“Il rapporto con i propri morti suppone la capacità di relazionarsi con i propri vivi”. Ed è la beatitudine intesa come tensione e ricerca che mi sono state testimoniate, dai miei cari e da moltissimi incontri con persone e comunità che ho ricevuto in dono finora.
Riporto qui un brano di altro scritto sull’essere beato, del fratel Adalberto della Comunità di Bose, che trova la mia piena adesione:
“Essere “beati” non significa sperimentare una dimensione di benessere e pace interiore, risultato di strategie complesse. Significa guardare ai poveri, ai diseredati, a quelli a cui non è fatta giustizia, a quelli che mancano del pane, a quelli che non hanno consolazione in questo mondo … Significa avere una ragione per cui vale la pena vivere, amare, soffrire; trovare ogni giorno la forza di sperare …”.