Beatitudine

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Ho riflettuto su questo termine, che è uno stato personale, dopo che ieri all’inizio di una riunione di lavoro alcuni colleghi si sono informati sui miei progetti e, dopo che ne ho accennato, hanno esclamato: “beato te!“. Ciò ha richiamato l’attenzione di altri che hanno concordato a voce alta su quanto già espresso da alcuni e fissandomi con vivo e piacevole interesse.

Sinceramente ho provato anche io piacere nell’immediato, e ho sorriso concordando io stesso sull’esclamazione. Salvo poi chiedermi mentalmente perché. Perché beato?

Oggi sono ritornato su questo pensiero, in una giornata che – come ogni anno – ci invita a guardarci dentro nell’oggi e a trovarvi i collegamenti con l’ieri, ci propone di identificarci nel presente trovando conferme rispetto al nostro rapporto con le nostre radici (paterne, materne, parentali, amicali, associative, …). E poi guardare avanti, quasi subito.

Mi sento sì beato. Ma non è come nei luoghi comuni, in cui essere beato s’intende stare bene, in pace, tranquillo perché non ci sono fastidi, dissidi interni, contrasti con altre persone, non aver seccature.

E com’è allora?

Ho provato a cercare nella letteratura e nei dizionari. Ecco alcune interpretazioni, tenuto conto che beatitudine deriva dal latino beatitudĭne(m), deriv. di beātus ‘beato’.

Alcune definizioni sui dizionari: “felicità intensa, perfetta e assoluta, circondato dalla mia amata famiglia, vivo in beatitudine”; “sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo; allegria, letizia, felicità: gioia grande, profonda, immensa” (gioia è termine correlato);  “l’essere sereno (anche in senso figurato): la serenità del cielo,  serenità di spirito, di giudizio” (serenità è altro termine correlato).

Guardando alla teologia: “Stato di perfetta felicità, specialmente quella delle anime del Paradiso, consistente, secondo la teologia cattolica, nella visione beatifica di Dio”.

E alla letteratura classica, Foscolo diceva che beatitudine è sentirsi amato, “la beatitudine di sentirsi amato addolcisce ogni dolore”.

Io considero beatitudine uno stato d’animo in tensione  e ricerca per forti vocazioni, per attenzioni verso gli altri, i singoli e le comunità in cui ho avuto  e avrò il dono di essere inserito o in connessione.

Di questo ringrazio coloro che sono state le mie radici e che oggi ricorderò in modo particolare. Ma poi tornerò alla scena di tutti i giorni con tutte le sfide, gli impegni, i desideri e i progetti che matureranno. Il Gesuita Giovanni Cucci (filosofo e psicologo) ha scritto una cosa che sento molto mia:“Il rapporto con i propri morti suppone la capacità di relazionarsi con i propri vivi”.  Ed è la beatitudine intesa come tensione e ricerca che mi sono state testimoniate, dai miei cari e da moltissimi incontri con persone e comunità che ho ricevuto in dono finora.

Riporto qui un brano di altro scritto sull’essere beato, del fratel Adalberto della Comunità di Bose, che trova la mia piena adesione:

“Essere “beati” non significa sperimentare una dimensione di benessere e pace interiore, risultato di strategie complesse. Significa guardare ai poveri, ai diseredati, a quelli a cui non è fatta giustizia, a quelli che mancano del pane, a quelli che non hanno consolazione in questo mondo … Significa avere una ragione per cui vale la pena vivere, amare, soffrire; trovare ogni giorno la forza di sperare …”.


Pubblicato da jeans ouriant

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